Studio Tablinum: In un mondo caratterizzato dal viavai frenetico della vita quotidiana, dalla dispersione del singolo nella massa, dai molteplici stimoli, è necessario ogni tanto “fare verità” per ritrovare l’essenza delle cose e del nostro essere. L’arte in questo può aiutare. Ce lo dimostrano le opere di Carlo Pazzaglia, artista che ha recentemente preso parte all’esposizione “Le cinque Anime della scultura” a Como, nata dalla collaborazione tra Studio Tablinum e Officinacento5. Conosciamo meglio colui che è stato recentemente definito “l’anima sintetica” della scultura.
La tua scultura parte prima di tutto dal territorio in cui vivi: ne sono un esempio le Marcolfe, – nome che deriva dall’antico germanico Markulf, composto da mark, “confine”, e wolf, “lupo”, interpretato come “colei che custodisce i confini”-. Esse sono maschere in pietra poste solitamente sulla porta di entrata o sulle facciate delle case, diffuse nella zona di Frignano (territorio a sud di Modena fino ad arrivare ai confini dell’appennino tosco-emiliano). A queste sculture, alle quali si attribuisce la funzione magica di scacciare gli spiriti maligni, ti sei ispirato per le tue immagini degli “spiriti” come gli Uomini neri e i Guardiani. In passato le marcolfe venivano poste ai confini per ricordare il macabro rito di porre le teste mozzate sui pali che costituivano le palizzate difensive come monito ai nemici.
Oggi che cosa rappresentano questi “guardiani”? Cosa ci vogliono ricordare?
– Tutte le categorie che ho cercato di rappresentare, in definitiva sono riconducibili ad una cosa sola: la nostra coscienza. Le Marcolfe-Spiriti ci ricordano che non esiste solamente la natura concreta e tangibile delle cose che ci circondano, ma esistono altre realtà che non vediamo e non comprendiamo.
Oltre alla realtà territoriale, nelle tue opere giocano un ruolo fondamentale i materiali. Hai affermato che lavori «sassi di fiume, il ferro, il legno ed ultimamente anche il marmo, cercando di portare alla luce la loro energia vitale». Emergono così dei veri e propri racconti figurati, delle storie, e le pietre in particolare sono considerate «come fossero diari della terra». Hai la capacità di estrapolare l’anima dalla materia attraverso la semplicità e la sintesi.
Di solito nell’ideazione di un’opera parti prima dal concetto che vuoi esprimere, cercando di darle voce attraverso la materia, o è la materia che ti parla e ti fa risuonare un certo stato d’animo?
– Dipende dai materiali che lavoro. I sassi di fiume sono loro a parlarmi. Per prima cosa devono colpirmi per come sono fatti, per il colore o per certe venature e poi si tratta di vederci qualcosa. Talvolta comincio il lavoro e questo rimane poi fermo per tantissimo tempo, perchè non so più come andare avanti. Quando e se mi verrà la folgorazione, lo finirò. Il ferro si comporta diversamente; non ha l’anima della pietra. Trattandosi di materiale di recupero, soprattutto piccoli pezzi, mi serve per dare corpo ad una idea che ho già in testa, che poi è un racconto. Il legno ed il marmo li uso con parsimonia perché non mi sono troppo congeniali; bisogna passare troppo tempo a lisciarli. Io sono per l’immediatezza.
Le tue opere, nonché il tuo stile di vita, sono state associate all’ideologia del primitivismo (una delle prime correnti di pensiero primitivista è rappresentata dall’intellettuale statunitense Henry David Thoreau), che promuove uno stile di vita semplice, austero, grazie al quale si può realizzare la vera dimensione umana e sociale. Questo è possibile solamente lasciandosi alle spalle la modernità, recuperando un più pieno contatto con la natura.
Quando hai deciso di aderire a questo modo di vivere? È difficile rimanere “appartato” dal mondo, ma al contempo non perdere lo sguardo attento sulla realtà contemporanea?
– Non ho deciso a priori; è maturato da solo. E poi, non è “vivere appartati”, bensì “vivere diversamente”; senza più stress da parcheggio o da frequentazioni obbligatorie ma poco gradite o da smania di successo e voglia di apparire. Qui si può vivere lasciando le chiavi in auto e sulla porta di casa. I contatti con la “civiltà” ci sono ancora ma, per muovermi dai miei luoghi, deve valerne la pena.
Si possono osservare molteplici influenze nei tuoi lavori: dal primitivismo di Modigliani e Picasso, all’espressività tragica di Caravaggio (si veda ad esempio la Medusa), alla poetica di Goya, ravvisabile nell’alone onirico e misterico che circonda le tue opere; le installazioni in particolare, sintetiche, isolate nello spazio (come Ecce Homo e Prigione), riportano alla mente soprattutto la scultura surrealista ed esistenzialista di Alberto Giacometti. In questo excursus di celebri richiami si rivela l’inquietudine e la precarietà della condizione umana, in contrasto con la natura, maestosa e serena.
Secondo te, l’arte può rappresentare per l’uomo un’occasione per fermarsi, allontanarsi dal caos della vita quotidiana, e riflettere su se stesso, per porsi degli interrogativi? L’arte è rivelazione dell’esistenza, o ne è lo specchio?
– Sicuramente l’Arte può servire anche a questo, ma non è l’unico fattore in grado di aiutarci a ritrovare noi stessi.
L’Arte è rivelazione dell’esistenza o ne è lo specchio? Bella domanda. Credo dipenda dalla profondità. Si può scavare per portare alla luce anche un manufatto piccolissimo e di nessun pregio oppure ci si può fermare alla superficie. Si trovano tantissime cose, anche senza faticare troppo.
Le tue opere sono state recentemente esposte alla mostra “Le Cinque anime della scultura” presso lo spazio Officinacento5 di Como, in collaborazione con Studio Tablinum. Puoi raccontarci un resoconto di questa esperienza?
– Sono stato molto contento di questa esperienza. La cornice espositiva era giusta e le opere erano ambientate e non sistemate per riempire gli spazi vuoti; gli organizzatori, persone serie e molto preparate. C’era armonia.
Pensi di sperimentare in futuro altre forme di arte, ad esempio la pittura?
– Non escludo nulla. Per quel che riguarda la Pittura, ho già dato. Dai 18 ai 22 anni ho dipinto ma poi, in un impeto di rabbia, ho fatto a pezzi tutte le tele e gettato via colori e pennelli. Ancora oggi amo moltissimo la pittura; quella degli altri.
Carlo Pazzaglia nasce a Bologna nel gennaio 1952; vive in montagna, a Sestola, al confine tra Emilia e Toscana. A 24 anni si iscrive alla facoltà di Architettura di Venezia, sostenendo tutti gli esami ma senza mai discutere la tesi. Ha fatto molti lavori, tra i quali lo scalpellino, la sua via per arrivare alla scultura, attività che lo impegna da alcuni anni.
Francesca Corsi